,f a n f i c t i o n stories ~

Performance's End

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Virgo_
CAT_IMG Posted on 15/6/2009, 12:37




buon pomeriggio mondo! allora allora... eccomi qui con una nuova sciocchezza, ma questa volta le cose cambiano...
ecco le ultime generalità della storiella: spero che vi piaccia, fatemi sapere cosa ne pensate ^-^
TITOLO: Performance's End - La recita è finita
AUTORE: Virgo_
GRAFICA: Normale: narrazione Sottolineato: flashback Corsivo: monologo
PAIRING: Ignoto (carnefice) X Un po' meno ignoto ma sempre sconosciuto (vittima forse troppo vittima) (ambientata all'epoca del Malice mizer, ma come ho detto non so esattamente quando)
SPOILER (click to view)
giuro, non riesco ad immaginare in quel contesto qualcuno di così... così cattivo ecco. per questo non avrà volto

RAITING: Arancione
RIASSUNTO: Non ci riesco.

PERFORMANCE'S END


È proprio vero.
Non sappiamo fare altro.
Solo sbagliare, e basta.
Venire usati nelle mani di qualcuno che è più forte di noi.
Usati e abbandonati.
Appena chi ci sfrutta ha avuto quello che vuole, è libero di andarsene.
Ma mai una volta che si guardi alle spalle, mai una volta.
Una volta chiusa la porta, quello che è rimasto dietro...
Sei proprio un coglione.

Sì, se lo ripeteva ogni giorno e ogni attimo.
Aveva iniziato anche a crederci per davvero.
Che fossero tutte bugie, bugie costruite per qualcuno di falso, quello era chiaro.
In fondo, era questo: falso e bugiardo.
Ed era follemente innamorato del dolore che ogni cicatrice gli provocava.
Non lo rendeva forte, solo lo indeboliva.
Abbassava la sua autostima.
Lo feriva come nessun’anima viva aveva mai sofferto.
Di una fragilissima e subdola violenza, a cui non aveva nemmeno la forza di resistere.
Perché per quanto fosse sottile, chi la controllava non lo era.
Non lo era e mai lo sarebbe diventato.
Poteva solo rimanere un gradino sopra alla sua vittima.
Giocava sul fatto che peccava ogni volta d’ingenuità.
Gli ritorceva contro l’amore che provava per il puro gusto di vederlo soffrire.
Senza la minima pietà per quella creatura già offesa da quello che provava.
In fondo lo amava.
Si erano amati per migliaia di volte con l’anima e il corpo, ma senza dirselo.
O così almeno gli pareva.
Io l’ho amato con il corpo e con l’anima.
Lui non ha mai provato niente.

Amava di lui ogni cosa che sapeva e che non sapeva.
Semplicemente lo amava.
Peccato che l’amore non fosse semplice.
Non lo era né da vedere, né da provare, né da sopportare.
Stava facendo questo: sopportava la marea di emozioni che lo travolgevano.
Senza nemmeno cercare di cambiare, perché lo sapeva, non avrebbe potuto.
Lui però non mi ama.
Lui ama di me solo quello che gli concedo.
Ama solamente tutto.

Non riusciva a sottrarsi mai.
Perché è questo che gli ho dato: tutto.
Gli bastavano pochi gesti per capitolare.
Per cadere fra le sue braccia, arrampicandosi sullo specchio dell’illusione.
Sapendo di provocarsi solo altre sofferenze, ma non volendosi privare di tutto quello.
Crogiolandosi ancora un poco nella finta dolcezza che lo invadeva.
Perché? Perché, cosa c’è di male nel sognare?
Non abbiamo il diritto di vivere nutrendoci di speranze, per quanto assurde?
Chi ha potuto privarci di quelle sincere emozioni che eravamo liberi di provare?

Se lo avesse saputo, lo avrebbe fermato prima.
E lui lo sapeva, oh, lo sapeva benissimo.
Non sarebbe andato avanti facendosi torturare.
Lo avrebbe respinto con stizza la prima volta.
Quando, quasi per errore, gli si era avvicinato senza la sua consueta pacatezza.
Con una punta di violenza che forzava il suo animo introverso.
E non si era opposto, pur sapendo come sarebbe andata a finire.
Non aveva proferito parola, richiuso dentro il suo aspetto altezzoso e perfetto.
Dannatamente finto e costruito.
Perché in lui non c’era nulla di vero.
Era tutta una bugia, l’ennesima per altro, che continuava a dedicare al mondo.
Per difendersi forse.
Perché fingere era sempre il modo migliore per proteggersi.
O forse perché non aveva la forza di mostrarsi per quello che era in realtà.
Come se il confine fra realtà e finzione, con lui, fosse definito.
Non c’era nulla di sicuro in tutta quella storia.
Le colpe di ognuno, leggere, pesanti, flebili o imperdonabili, si erano mescolate.
Perché non c’era nessuno privo di colpe, nessuna vittima innocente.
Se lo avesse saputo, lo avrebbe fermato prima.
E lui lo sapeva, oh, lo sapeva benissimo.
Non sarebbe andato avanti facendosi torturare.
Lo avrebbe respinto con stizza la prima volta.
Quando, quasi per errore, gli si era avvicinato senza la sua consueta pacatezza.
Con una punta di violenza che forzava il suo animo introverso.
E non si era opposto, pur sapendo come sarebbe andata a finire.
Non aveva proferito parola, richiuso dentro il suo aspetto altezzoso e perfetto.
Dannatamente finto e costruito.
Perché in lui non c’era nulla di vero.
Era tutta una bugia, l’ennesima per altro, che continuava a dedicare al mondo.
Per difendersi forse.
Perché fingere era sempre il modo migliore per proteggersi.
O forse perché non aveva la forza di mostrarsi per quello che era in realtà.
Come se il confine fra realtà e finzione, con lui, fosse definito.
Non c’era nulla di sicuro in tutta quella storia.
Le colpe di ognuno, leggere, pesanti, flebili o imperdonabili, si erano mescolate.
Perché non c’era nessuno privo di colpe, nessuna vittima innocente.
Se lo avesse saputo, lo avrebbe fermato prima.
E lui lo sapeva, oh, lo sapeva benissimo.
Non sarebbe andato avanti facendosi torturare.
Lo avrebbe respinto con stizza la prima volta.
Quando, quasi per errore, gli si era avvicinato senza la sua consueta pacatezza.
Con una punta di violenza che forzava il suo animo introverso.
E non si era opposto, pur sapendo come sarebbe andata a finire.
Non aveva proferito parola, richiuso dentro il suo aspetto altezzoso e perfetto.
Dannatamente finto e costruito.
Perché in lui non c’era nulla di vero.
Era tutta una bugia, l’ennesima per altro, che continuava a dedicare al mondo.
Per difendersi forse.
Perché fingere era sempre il modo migliore per proteggersi.
O forse perché non aveva la forza di mostrarsi per quello che era in realtà.
Come se il confine fra realtà e finzione, con lui, fosse definito.
Non c’era nulla di sicuro in tutta quella storia.
Le colpe di ognuno, leggere, pesanti, flebili o imperdonabili, si erano mescolate.
Perché non c’era nessuno privo di colpe, nessuna vittima innocente.
Si colpevolizzava di ogni suo gesto, anche quello più naturale.
Non avrei dovuto farlo, non avrei dovuto farlo mai.
E invece...

Successo tutto quanto in breve tempo.
Lui non mi fa felice, anche se lo sembra.
Questo non è quello che volevo.

No, non lo è, nessuno lo vorrebbe.
Nessuno che veda quanto si soffre rimanendo coinvolti.
Questo è solamente un errore, magistralmente orchestrato da un abile carnefice.
Possiamo solamente sbagliare e non renderci conto in tempo dei nostri errori.
Se lo avessi saputo...

Ancora una volta la sua anima sanguinava inerme.
Non avrei fatto niente, perché non mi merito di avere l’energia per reagire...
Sì, ci era riuscito.
Aveva sciolto il ghiaccio e lo aveva lasciato senza la barriera che lo difendeva.
E lo aveva fatto per puro desiderio.
L’immagine riflessa nello specchio si era assopita delicatamente.
E, anche sonnecchiando, riusciva come al solito a mentire fieramente in ogni cosa.
Quegli intensi occhi blu, freddi e magnetici, impensabili da uno come lui.
Uomo in cui ogni luce veniva rapita da un’anima cinica, frigida e scostante.
E invece ogni cosa di lui brillava di un gelido e disumano calore.
Consumato nel silenzio, così come ogni atto nella sua vita.
Una vita passata celando ogni dettaglio dietro un sipario di artificiale cupezza.
Fatta di sorrisi mai sbocciati, tormentati e violentati dalla realtà.
E la cosa che apparentemente poteva salvarlo, si era dileguata una volta scoperta.
L’amore.
Quello a cui tutti, almeno una volta ci aggrappiamo sperando che ci porti in salvo.
Quello che se vissuto per davvero, appaga del calore più lucente al mondo.
Ma appena qualcuno rifiuta il nostro sentimento, questo muore.
Era questa la sostanziale differenza fra un essere umano e lui.
Lui continuava ad amare, aggrappato non all’amore.
Ma alla speranza di venire un giorno amato per davvero.
Amato dall’unico che provava amore soltanto verso se stesso.
E quella vita che aveva ricostruito a suo piacimento.
Era bellissimo.
È bellissimo, e lo rimarrà per sempre.
Nonostante tutto il dolore che proverò, sarà sempre il mio bellissimo principe.
E io la sua ingenua principessa troppo innamorata per credere all’amore.

Un gemito che ben poco ha della sua usuale delicatezza femminile.
Qualche parola che graffia la gola.
Una lingua umida che sfiora con insistenza il collo.
Si avventura fino alla scapola.
Scende sul torace.
Tormenta fra i denti un capezzolo.
Le cosce strette attorno ai suoi fianchi.
Mani calde e forti che scivolano sulla schiena.
Il progressivo aumentare del pulsare del proprio corpo.
Il vetro freddo coperto di gocce, acqua frammista a schiuma profumata.
Una gentilezza fittizia che si impossessa violentemente di un corpo già straziato.
Un’ombra che insegue due corpi fusi in un essere solo.
Inquietudine solo da un lato.
Soffocata dalla lussuria di quell’anfratto bollente.
In silenzio.

Già, come sempre.
Ormai vivo un’esistenza fatta di silenzio.

Una vita fatta di un forzato, amaro e mesto silenzio.
Una promessa che ha visto un tempo immemore trascorrere senza tregua.
Senza guardare indietro, proiettata a senso unico avanti.
E alla fine di tutto, tutto il bruciante rancore che lo divora...
Scompare, scompare cullato dai gemiti.

Scosse la testa con forza per allontanare quella disgustosa immagine perversa.
Una stretta allo stomaco, seguita dal tipico nodo alla gola di chi ricorda non volendo.
Ma quella era la condizione a cui era stato destinato, rivedere ogni cosa.
Riviverla in ferite mai sanate e impossibili da chiudere.
Qualcosa che saetta febbrilmente senza chiedere permesso.
Divincolarsi da un abbraccio non voluto e troppo forte.
“Shh, non fare così”
“Basta! Basta vattene!”
Venire accarezzati con calma da un ghigno cattivo che affiora spontaneo.
Incurvando quelle labbra che per mesi erano sempre state notate per splendide.
Non in grado di accusare così tanta forza su qualcuno di indifeso.

Lui non fa l’amore con me.
Lui mi fotte.
Mi fotte così forte da farmi urlare.

La sensazione di amaro in bocca che sale da qualche punto indefinito.
Gli addominali contratti gli uni sugli altri.
Goccia per goccia si fece prendere dall’ansia.
Goccia per goccia, di rancore e Dio solo sa che altro.
Scende cadendo sempre nello stesso punto, scivolando fra le righe.

E tutto per cosa?
Per un sorriso amareggiato, ricambiato da un ghigno possente.
Quando ancora sapeva cosa significasse sorridere.
Riempirsi e circondarsi di qualcosa che senti di amare.
E per dirla tutta, lo stava facendo.
Si faceva colmare e rapire da quella persona con cui poteva aprirsi.
Solo una cosa non riusciva a fare, all’interno di quella continua estenuante corsa.
Non le vedeva affiorare fra le lunghe ciglia, mai.
Non le vedeva increspare e sospingere lievi cristalli trasparenti sulle guancie.
Non piangeva.
Avrebbe voluto farlo, sarebbe stata una prova del suo essere umano.
E invece no, viveva ancora esiliato dalla complessità della sua anima.
Quella che aveva a lungo relegato in qualche angolo.
E che ora continuava a fare capolino chiedendo anche solo un po’ di attenzione.
Non c’è sordo peggiore di chi non ascolta sé stesso.
E quella era solo l’ennesima caratteristica negativa che poteva ritrovarsi addosso.
Guardava congelarsi tutto quello che sentiva.
Come un noioso film in bianco e nero.
Immagini sbiadite che scorrono lentamente.
Senza toccarmi minimamente.
Correva nella direzione opposta a quella delle sue emozione fuggendo da esse.
E invece mi toccano, mi squarciano in due.
Lui poteva scegliere, ne aveva avuta l’occasione.
Poteva fermarsi e tornare indietro.
E non accontentarsi di vivere di ricordi.
Di nastri di una libertà fin troppo sconfinata.
Poteva scegliere e non lo aveva fatto.
Avrebbe potuto farlo, avrebbe voluto farlo.
E invece che farlo e basta, ci aveva pensato.
Ci aveva pensato fino a che non si ricordò più la sua stessa domanda.
Ma a certe scelte bisogna andare incontro senza pensarci troppo.
È necessario andare avanti, in modo per quanto subdolo, e agire.
E ormai quella viscida decisione si era già fatta largo.
Aveva abbastanza spazio per compiersi.
Su quelle labbra calde e rosse sarebbero apparse poche gelide parole.
La speranza si sarebbe infranta.
E con la nave, sarebbe affondato il suo capitano.
Perché aveva sbagliato tante cose, ma non si sarebbe abbandonato di nuovo.
Sarebbe morto, ma si sarebbe protetto fino alla fine.
E in un soffio secco e violento avrebbero spento la tremula fiamma che ancora ardeva.
Le sue labbra si sarebbero macchiate di parole crude e dolorose.
Non avrebbe mai più ascoltato la propria voce.
Preda del senso di colpa di aver infranto la sua stessa speranza.
Vittima di una parte improvvisamente troppo forte di lui.
Lo disgustava la sola immagine di se stesso nell’atto di metter fine a quella storia.
Era come voler mettere fine a una fine già iniziata.
O ancor peggio, finire qualcosa che non era mai iniziato.
E gli avrebbe fatto male, oh se lo avrebbe fatto.
Avrebbe sofferto come un cane.
E allo stesso modo sarebbe stato colpito il suo carnefice.
Si, se lo merita.
Si scoprì di colpo vendicativo.
Uno sfarfallio di orgoglio represso gli nacque nello stomaco, chiudendolo.
Strinse i pugni così forte da graffiarsi i palmi con le sue stesse unghie.
Era passato poco tempo, poche ore forse.
Si concentrò brevemente chiudendo gli occhi.
Il dolore alla schiena e alle gambe non era ancora scemato.
Doveva essere trascorso davvero poco tempo dal loro ultimo incontro.
Quello che doveva assolutamente essere l’ultimo.
Doveva finire tutto, avrebbe dato ascolto alla sua voce per l’ultima volta.
E poi si sarebbe reso conto che aveva detto qualcosa di impronunciabile.
Ma non gli sarebbe importato, voleva solo finirla con tutta quella farsa.
Scattò di corsa fuori dalla stanza e raggiunse l’ingresso.
Frugò nella tasca del cappotto, compose un numero sulla tastiera del cellulare.
Dopo ogni suono percepì un fischio al limite dell’udibile.
Come un ultrasuono.
Focalizzò la sua attenzione su quel rumore per non far caso a tutto il resto.
Scosse la mano libera nell’aria e la chiuse forte per attutire il suo tremare.
Sentì le viscere contorcersi in un spasmo violento e la gola chiusa per l’ansia.
Così leggero da sembrare fatto d’aria.
Solamente dentro il suo petto cresceva un dolore pulsante, oppressivo.
“Pronto?”
Silenzio.
Piatto, stanco.
Morto.
“Ciao...” azzardò nuovamente l’uomo che aveva appena risposto al telefono.
Aveva diligentemente aperto la strada a quella che stava per essere chiamata fine.
Illuso dal rassicurante nome comparso sullo schermo.
Dietro le palpebre dell’uomo dagli occhi blu scoppiò un fuoco d’artificio.
Vide comparire nella mente le guancie dell’altro leggermente arrossate.
No, non farlo! Non distruggere tutto, ti prego non lo fare!
Si stava implorando, stava chiedendo pietà.
Pietà di se stesso e verso se stesso.
Respirò profondamente.
L’aria fredda lo bruciò dalla gola fino ai polmoni.
“È finita. Trova qualcun altro da far soffrire. Io non ci sto più”
E gli buttò giù, chiudendo la porta come lui si era visto fare tante volte.
No, il peso non scomparve.
Divenne sempre più insopportabile, a ogni irregolare battito del cuore.
Non fu inaspettatamente liberatorio.
Gli venne da gridare, ma aveva già deciso di non esprimere più nulla.
Sarebbe divenuto una creatura viva ma silenziosa.
Che non avrebbe portato scompiglio.
Avrebbe risistemato tutto quello che era stato messo in disordine.
Non aveva braccia fra cui farsi stringere per rassicurarsi.
Si sarebbe fatto forza da solo, e ci sarebbe riuscito.
Ma in realtà lo sapeva.
Era del tutto inutile, fingere che ci sarebbe per davvero riuscito.
Avrebbe mentito di nuovo, sempre di più.
Inutile falsare ancora la realtà.

La recita è finita.

 
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