Titolo: I Hate Everything About Me/Petali di Solitudine (a seconda degli archivi^^)
Fandom: Saint Seiya - The Lost Canvas
Personaggi: Pisces no Albafica, uno specchio, le rose
Rating: nc-17, anche nc-18
Tabella / Prompt: 50 kinks / 036 Wanking / Masturbazione @
kinks_pervsConteggio Parole: 1740
Avvertimenti: Autolesionismo, self, angst (mi ci sto specializzando *evil grin*), non è una song-fic perché le strofe le ho aggiunte solo dopo aver scritto
Dedica: perché una certa spiritella malefica (aka Liz) ama tanto gli specchi e i bei ragazzi depressi <3
Colonna sonora consigliata: Three Days Grace, specialmente
Pain e
Over & OverPain, without love
Pain, I can't get enough
Pain, I like it rough
'Cause I'd rather feel pain than nothing at all Albafica dei Pesci si odiava.
Anger and agony
Are better than miseryCon ogni velenosissima fibra del suo essere, detestava se stesso e soprattutto l'ingannevole bellezza che ricopriva un tale potenziale distruttivo, che poteva danneggiare indiscriminatamente amici e nemici. Non che poi ne avessi, di amici. A parte uno, piuttosto pericoloso: uno specchio dai bordi scheggiati, senza nemmeno una cornice, spoglio di ogni decorazione. Poiché l'unica cosa bella in quella lastra di vetro doveva essere ciò che rifletteva.
A forza di restare da solo col proprio odio, Albafica aveva sviluppato una morbosa ossessione per il proprio corpo. Rendendosi conto di quanto in basso fosse caduto, aveva ancora più schifo di se stesso, ma non riusciva a fare nulla per tirarsene fuori. Persino le sue rose gli parevano orribili, mostruose, come uno specchio che rifletteva solo la sua anima mortifera e marcia. Il suo giardino era una selva scomposta, dal quale emergevano alti fusti spinosi come a voler portare in alto i loro preziosi boccioli, ma che venivano presto raggiunti e soffocati da altre piante di rose di mille colori. Erbacce non ce n'erano, però. Il veleno delle rose impediva a qualunque altra cosa di crescere in quel giardino. I fiori che Albafica poteva evocare col cosmo per i propri attacchi erano solamente rossi, bianchi e neri, ma ne coltivava -o meglio, ne lasciava crescere- molte altre varietà.
Il custode del Dodicesimo Tempio si inoltrò in quella sorta di labirintica foresta, dove petali e foglie caduti marcivano sul terreno, emanando un odore dolciastro e sgradevole, che lottava con la fragranza fresca e ben più pericolosa delle rose nel loro massimo splendore. Giunse in un angolo dove le piante si facevano appena un po' meno intricate e si sdraiò fra di esse, lasciandosi pungere dalle spine che ormai non gli potevano arrecare alcun danno. La sua candida tunica si strappò e si macchiò di scarlatto, e così la sua pelle, chiara come neve. O come i petali candidi di alcune rose.
You're sick of feeling numb
You're not the only one
I'll take you by the hand
And I'll show you a world that you can understand
This life is filled with hurt
When happiness doesn't work
Trust me and take my hand
When the lights go out you will understandIl dolore era solo un modo come un altro di sentirsi vivo, nel vuoto spaventoso che circondava Albafica. Egli non aveva certo rinnegato la propria dea e con essa la missione che gli era stata affidata. Aveva come un vago ricordo di un mondo che ancora non era del tutto perduto nonostante le sue pecche, ma gli pareva che tutto ciò che aveva giurato di proteggere, tutto ciò che si trovava al di fuori di quell'Eden infernale, non fosse altro che un sogno sfumato.
Osservò il cielo sopra di lui: non una nube sfiorava quell'azzurro compatto, così nitido ed uniforme da sembrare un soffitto vicino. Troppo vicino, quasi pronto a cadergli addosso, a schiacciarlo come lui schiacciava senza pietà dozzine di boccioli, fiori e foglie. Ma se il cielo gli fosse piombato addosso, sarebbe stato avvelenato anch'esso.
Albafica serrò gli occhi e richiamò nella propria mano una rosa rossa. Si accarezzò una coscia con la morbida corolla e rabbrividì pensando che un contatto simile avrebbe ucciso chiunque altro. Si sentì solo: rabbiosamente, felicemente, orgogliosamente solo. Prese a strusciarsi sulla coscia anche il gambo della rosa, dapprima delicatamente, poi esercitandovi sopra una discreta pressione. Minuscoli graffi apparvero su quella coscia color madreperla, così sottili da non lasciar nemmeno uscire del sangue. Con uno sbuffo annoiato, Albafica lanciò via il fiore e si portò le ginocchia alle spalle, avvicinando un dito alla propria apertura. Si penetrò piano, dandosi il tempo di abituarsi a quell'intrusione, poi aggiunse un altro dito, e un altro, gemendo flebilmente ogni volta che andava a premere contro quel punto segreto da cui scaturiva il piacere. I suoi movimenti si fecero più rapidi e ansiosi di giungere all'apice, mentre dalle sue labbra scorreva un fiume di ansimi eccitati da far impallidire una puttana. Rabbrividì fin nel profondo e si mordicchiò un ginocchio, mugolando, un attimo prima di liberarsi in una folle girandola di colori che gli schizzava addosso gocce di dolore dietro le palpebre abbassate.
Com'era bello non pensare, perdersi in quei momenti di sangue e sperma, in cui non era necessario ricordarsi chi era.
Si rialzò di scatto riaprendo gli occhi. Gli girò la testa, come quando ancora non si era reso totalmente immune al veleno e si sentiva intossicare giorno dopo giorno da quell'aria malsana.
Rientrò in tutta fretta nella propria dimora, non sopportando più la vista di quel disordine e i marmi bianchi lo accolsero freddamente. Si tolse i sandali e camminò scalzo, silenzioso, fino alla camera da letto. Tolse il drappo, candido anch'esso, che copriva il grande specchio e vi si perse per un momento, attonito. Era strano vedere qualcuno in quel tempio, anche se solo di riflesso. Albafica dei Pesci si osservò attentamente: egli non faceva parte di quell'umanità che doveva difendere, era l'agnello da sacrificare, ma era tutto fuorché immacolato e puro.
Decise di fingere di volersi bene almeno per un momento. Si liberò della corta tunica strappata e macchiata e la gettò lontano, poi si passò le mani fra i capelli per togliervi i ramoscelli che vi erano rimasti impigliati. Infine prese un pregiato pettinino d'avorio e prese a disfare amorevolmente i nodi in quella cascata celeste. Si sfiorò la schiena, ricoperta di ferite, e tremò. Il dolore, chissà perché, arrivava sempre dopo. Forse era uno degli effetti del veleno, ma non gli importava di indagare in proposito. Inarcò la schiena e gettò all'indietro il capo, lasciandosi accarezzare i mille buchetti causati dalle spine dai propri capelli. Come vibrazioni quasi impercettibili, i suoi nervi gli trasmettevano dolore, aghetti conficcati nella pelle come quelli che si sentiva nel cuore. Scosse ancora la chioma, che gli sfiorava le natiche, e si lasciò cullare da quella sensazione leggera. Raddrizzò il capo dopo qualche secondo e si leccò una ferita più profonda delle altre su un braccio pensando alle leggende sui vampiri. Una di quelle creature immortali avrebbe potuto assaggiare il suo sangue? Che effetto avrebbe avuto su di lui un morso? E sul vampiro? E chissà se egli aveva lo stesso sapore degli altri, delle persone normali. Rise di quelle sciocche fantasie, ma l'immagine che gli rimandò lo specchio era tutto fuorché allegra. Si fissò negli occhi con astio, poi si avvicinò a quel se stesso fittizio e attaccandosi al vetro, appannandolo col proprio respiro. Si baciò, assaporando il freddo sulle labbra, ma subito si allontanò di qualche passo per potersi osservare meglio.
“Eccola, ecco la mia sola compagnia. Finché morte non
mi separi.”, pensò con amarezza e disprezzo, arrotolandosi una ciocca di capelli fra le dita con gesto vezzoso. “Amen.” aggiunse, iniziando a stuzzicarsi un capezzolo con la mano libera. Poi la portò verso il basso, seguendo le linee appena accennate dei muscoli. Ma subito cambiò idea, e rimise la mano verso il proprio volto per carezzarsi con l'indice le labbra. Si succhiò voluttuosamente il dito, poi se lo passò sul mento, indugiò sul collo e infine scese sul petto. Fece un passo verso lo specchio e ne afferrò i bordi con forza, incurante dei tagli che gli provocava ad un palmo la parte scheggiata. Una goccia di sangue rotolò giù, come un rubino sfugge ad una collana che si rompe, e Albafica si affrettò a raccogliere con la lingua quel prezioso, leccando poi anche il vetro, e dietro il vetro, la propria lingua.
Si strusciò contro se stesso, premendo il proprio sesso contro la superficie ormai tiepida di quella finestra sulla solitudine. Mandò un profondo sospiro, poi un vago gemito a labbra strette. Chiuse gli occhi, immaginando che il riflesso entrasse nella realtà per abbracciarlo con artigli di schegge, per penetrarlo col suo freddo. Immaginò anche di essere lui stesso lo specchio, manovrato con fili invisibili da qualcuno oltre quel vetro, e sperò che quel qualcuno appannasse la sua immagine con l'alito per farlo svanire senza sofferenza. Ma ovviamente ciò non accadde: non era ancora giunto il tempo in cui Albafica dei Pesci sarebbe caduto onorando il suo ruolo di cavaliere. E il pensiero del proprio ruolo in quel momento era lontano dalla mente del giovane.
Compì qualche passo indietro, finché le sue gambe non incontrarono l'ostacolo del letto. Vi si lasciò cadere senza staccare gli occhi dall'immagine riflessa, come per timore di vederla sparire. Prese ad accarezzarsi il petto e i fianchi con entrambe le mani, su e giù, impastando quella pelle più liscia del marmo e più letale del morso di un serpente, solcata da innumerevoli cicatrici frutto di un'eterna battaglia contro se stesso. Poco dopo alzò le braccia sopra la testa, lasciandosi cadere addosso una pioggia di petali neri, poi ordinò alle rose di avanzare verso lo specchio e di avvolgerlo in una cornice grottesca e barocca dal macabro retrogusto luttuoso, nella quale possenti spine verdi emergevano dal mare di nero che sembrava piangere gocce di rugiada. Albafica osservò quello spettacolo con la soddisfazione dell'assassino che osserva un cadavere o del suicida che tasta la consistenza del proprio cappio. Dopo tutto non faceva molta differenza, estraneo come si sentiva rispetto a se stesso.
Ben presto però le cupe riflessioni furono spazzate via dalle sue mani, una delle quali lasciava tracce purpuree sul corpo che sfiorava senza sosta. Si percorse una gamba fino alla caviglia con lentezza esasperante, chiedendosi come sarebbe stato essere toccato in quel modo da qualcuno che non fosse lui stesso. Ma la sola idea lo disgustò. Fosse il timore di trascinare qualcun altro in quel baratro, in quel girone infernale, o fosse il senso di superiorità rispetto ad una qualunque altra persona dall'aspetto scialbo e l'animo non segnato da ferite, Albafica non si curò di scoprirlo, troppo perso nella propria crescente eccitazione, così potente da convincerlo a portarsi una mano fra le gambe per iniziare a masturbarsi con tanta forza da farsi male. Urlò senza ritegno, lasciandosi avvolgere dal calore dell'orgasmo imminente, sforzandosi di tenere gli occhi aperti in mezzo a quella tempesta dei sensi per poter osservare il proprio volto sconvolto, distorto dal piacere come da una lente deformante. Semi seduto sul letto, le pallide cosce spalancate, offerte come un dono prezioso al proprio sguardo affamato, Albafica venne.
Ma non ancora sazio di quella visione paradisiaca, mentre ancora stava riprendendo fiato, si portò la mano al volto, leccando con impegno ogni dito.
I know, I know that you're wounded
You know, you know that I'm here to save you
You know, you know I'm always here for you
I know, I know that you'll thank me laterInfine, molto lentamente, si alzò scrutando quella forma slanciata ed elegante che si muoveva di fronte a lui. Mosse un paio di passi esitanti, poi, fulmineo, sputò sullo specchio. Sputò sul cavaliere della Dodicesima Casa e su quelle rose assassine che sembravano avergli rubato la vita e la ragione.
'Cause I'd rather feel pain than nothing at all.[C'è un esperimento che porta il nome di uno scienziato (del quale non ricordo il nome) che consiste nel far indossare ad una persona per diversi giorni degli occhiali deformanti. Inizialmente il soggetto vedrà, ad esempio, le mura degli edifici curve, ma poi inizierà a percepirle nuovamente dritte nonostante le lenti. Questo avviene perché il cervello rielabora le informazioni ricevute dagli occhi secondo conoscenze pregresse: lui sa che le case sono dritte, quindi anche se gli occhi non le percepiscono più così, la persona crede di vedere bene. Questo è il meccanismo che si attiva anche nelle anoressiche, che, secondo di quello che dice loro la bilancia e di come si convincono di essere, si vedono realmente troppo grasse.
C'entra relativamente poco con la storia, ma mi è venuto in mente parlando dell'aspetto esteriore e di Alba che vede le proprie rose come brutte, probabilmente perché il suo cervello sa che le armi e la morte non sono cose belle... Yay, psicanalizziamo i Saint!]
I feel it everyday it's all the same
It brings me down but I'm the one to blame
I've tried everything to get away
So here I go again
Chasing you down again
Why do I do this?
Over and over, over and over
I fall for you
Over and over, over and over
I try not to.