L'anoressia è un argomendo delicato da trattare, lo so, eppure mi va di farlo. Non so cosa ne sarà di questa storia, so solo che la sento mia più che mai. E'.. uhm, un pezzo della mia vita, direi.
Ecco, vi lascio alla lettura. Consigli, critiche, accetto tutto. (:
«Noi siamo amoressici.»
«Amoressici?» e rise, di una risata divertita, un po’ confusa.
«Sì. Rifiutiamo i nostri sentimenti come io rifiuto il cibo.»
«Amoressici dici, eh?» ci ragionò su. «Allora è meglio se ci curiamo.»
Lei annuì, sovrappensiero. L’Amoressia si può curare?
Capitolo uno.
L’edificio del Liceo classico M. Cairoli la guardava imponente e vecchio, quasi decadente, con le scritte dei suoi studenti sui muri. Una in particolare catturava l’attenzione di ogni studente, vecchio o nuovo.
‘Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate.’
Iris rise e pensò allo stupido che l’aveva scritto sopra l’enorme cancello. Si ricordava vagamente di un tizio che tre anni fa faceva l’ultimo anno. Poi l’avevano espulso per quella scritta, ma non l’avevano cancellata. Era lì, maestosa, metteva paura a tutti quelli che entravano.
Ritornò al presente ed entrò, tra le urla esagerate degli studenti del liceo. Cercò di non badarci molto, ma era ogni giorno la stessa storia. Odiava stare tra quella gente, tra adolescenti che non facevano che fissarla ogni giorno, non abituandosi a lei.
Non c’era studente del terzo anno che non la guardasse. Raccolse tutto il coraggio che aveva dentro di se, come ogni giorno, e percorse i corridoi, arrivando alla sua aula. Ci entrò e andò nell’ultimo banco, vicino alla finestra.
«Lei è in anticipo, signorina Rossini.» Iris alzò la testa dal libro di Latino e incontrò il sorriso del suo professore.
Sorrise e chiuse sia il quaderno che il libro. «Sì, non ho voglia di stare fuori.» rispose, indicando con un leggero cenno del capo il corridoio.
Il professore annuì, pensieroso.
«Hai mangiato qualcosa stamattina?» le domandò, come di consuetudine, abbandonando ogni formalità. Ogni mercoledì mattino era così. Arrivava in classe, trovava il professor Gilardi intento a compilare il registro. Si sedeva, lui la raggiungeva. ‘Lei è in anticipo, signorina Rossini.’ E poi ‘Hai mangiato qualcosa stamattina?’
Lei annuì, perdendo anche l’ultimo briciolo di buonumore.
«Sì, latte e brioche.» mentì e lui fece finta di crederci.
«Attenta, Rossini, attenta.»
Il professore l’aveva presa in simpatia perchè era l’unica in classe a prestare attenzione alle sue lezioni. Si preoccupava per lei e un paio di volte l’aveva pure accompagnata all’ospedale dopo che era svenuta.
E anche lei, in fondo, si era affezionata a lui. Se solo la smettesse di chiedermi in continuazione se faccio colazione.
«Certo, prof.»
Ma la campanella coprì la sua voce, obbligando gli studenti a entrare nelle loro classi. Nessuno si stupì di vedere Iris già seduta con i libri sul banco, intenta a studiare.
Nessuno si stupì di vedere che non aveva alzato la testa nemmeno una volta in quelle prime tre ore. Prima Latino, poi Matematica e infine Greco. Lei aveva ascoltato i professori senza alzare la testa, senza dire una parola. Aveva preso appunti e poi al suono della campanella aveva chiuso il quaderno.
Aveva ignorato i commenti poco gentili dei ragazzi dietro di lei e si era alzata.
«Iris..» qualcuno la fermò sulla porta. Doveva andare in bagno, bere tanta acqua.
Si girò e vide una ragazza starle davanti. Si vergognava di dover chiedere aiuto a quell’anoressica. Così guardò da un’altra parte.
«Cosa vuoi, Lisa?» domandò infine Iris, perdendo la pazienza.
Lisa era amica di Anna e nessuna delle due parlava con Iris. Era vietato parlare con Iris; forse perchè sembrava volesse ammazzare con lo sguardo chiunque si avvicinasse. Per questo spesso e volentieri il banco accanto a lei rimaneva vuoto.
«Ecco, volevo chiederti.. visto che sei brava in latino, se puoi darmi una mano, ecco.» balbettò, strizzita. Anna, dietro di lei, un po’ rideva sotto i baffi un po’ si arrabbiava perchè non le andava a genio che l’amica si rivolgesse a quella sfigata.
«No.» rispose Iris, senza cambiare espressione.
«Perchè?» domandò sorpresa Lisa. Si aspettava un sì perchè tutte volevano avvicinarsi a lei o ad Anna. Tutte aspiravano a diventare loro amiche. Tutte tranne Iris.
«Non ho tempo da perdere con te.» fece un passo avanti, smettendo di guardare la bionda tinta.
Questa si infuriò. «E cosa devi fare, eh? Attaccarti al cesso e vomitare? Nascondere il cibo? Eh?»
Iris si fermò sulla soglia, si appoggiò alla porta e l’altra mano la strinse forte in un pugno. Lisa era soddisfatta di quelle parole; era la loro specialità far star male Iris e le altre ‘sfigate’.
Guardò Anna per trovare conferma. L’altra, bionda naturale, le sorrise e alzò il police destro.
«Ecco perchè non ho tempo da perdere con te.» sibillò tra i denti, trattenendo la voglia di spaccarle la faccia.
Lisa rimase sorpresa, il suo sorriso compiaciuto sparì, lasciando al posto a un’espressione che poche volte compariva. Iris aveva ferito Lisa.
Iris rimase ancora un secondo e poi se ne andò.
«Stupida anoressica.» bisbigliò Lisa, quando Anna le fu accanto.
«Non ho ancora capito perchè hai chiesto aiuto proprio a lei.» disse e sbuffò. Si sistemò la gonna e si sedette su un banco.
«Perchè è l’unica brava in latino.» rispose tra i denti Lisa. Si spostò la frangia dagli occhi e guardò l’amica. Era bella, certo. Anna era bellissima e spietata. I ragazzi le morivano dietro e lei li rifiutava tutti. Quelli della sua età non le piacevano; mirava a quelli più grandi, magari dell’ultimo anno o più grandi ancora, come il marito bello da morire della nuova professoressa di Filosofia. Bello e infedele, aveva detto un giorno la bionda, soddisfatta di averlo ospitato tra le sue gambe.
Faceva tante cose sbagliate, Anna, per la sua età. Quindici anni non le bastavano e così fingeva di averne diciotto, venti.
Qualche volta la si vedeva in giro con Matteo, quello della quinta C. Non avevano una vera storia, ma si divertivano insieme. A lui piaceva sul serio. La verità era che Anna non si accontentava mai di nessuno.
«Che vuoi che sia? Un tre non ti rovinerà la media. E poi il compito è settimana prossima, hai ancora tempo per studiare.» rispose l’altra annoiata.
«Per te è facile. Tanto chi se ne frega se rimani bocciata, no?»
Anna cambiò espressione e avvicinò il viso a quello di Lisa. «Sta’ zitta, stupida.»
Lisa rimase così per un po’, senza sapere come ribattere. Anzi, non doveva ribattere o se la sarebbe scordata la popolarità. Così fece finta di non aver sentito.
*
Iris si guardò allo specchio. I capelli scuri le incorniciavano il viso magro. Non aveva il ciuffo o la frangia come la maggio parte delle ragazze della scuola, e questo la faceva sembrare ancora più strana. Erano lunghi, le arrivavano qualsi al fondoschiena, lisci. Gli occhi invece erano chiari e facevano a botte con il suo viso sempre imbronciato. Erano azzurri come il cielo con sfumature di un giallo strano. Erano il ritratto di tutta la felicità che Iris sopprimeva.
Aprì il rubinetto e lasciò che per qualche secondo l’acqua scorresse libera. In verità lo faceva perchè era sempre sporca all’inizio.
Abbassò la testa, tirandosi i capelli indietro e aprì la bocca. Lasciò che l’acqua entrasse e le riempisse lo stomaco.
Quando si tirò su, stava già meglio. Cercò di sorridere, ma le sembrò solo di deformarsi il volto. Schioccò le sottili labbra e si avviò verso la porta. Appena in tempo perchè la campanella la stordì. Odiava quel rumore assordante. Le faceva venire il mal di testa.
Tornò in classe e pazientemente aspettò che passassero anche le ultime due ore.
Poi, come ogni giorno, uscì quasi correndo, affaticandosi e perdendo il respiro per pochi secondi. Fuori dal cancello sua madre l’aspettava in macchina, battendo le mani e canticchiando una canzone allegra. Era una donna ancora giovane. Appena quarantenne, senza rughe, magra, bella. Per questo il marito l’aveva sposata. Perchè aveva visto in lei la giovinezza eterna. Aveva gli occhi dello stesso colore della figlia e l’unica ruga che la caratterizzava era quella che si formava quando vedeva arrivare la figlia in tutta la sua magrezza. Socchiudeva gli occhi sforzandosi di non piangere, pregando che non morisse lì davanti a lei, mentre attraversava la strada, tra gli sguardi dei suoi compagni.
«Ciao, tesoro.» disse, sorridendole.
Lei annuì. «Ciao, mamma.»
La donna partì e nessuna disse altro. Non facevano molta conversazione; non si ricordava nemmeno l’ultima volta che la figlia aveva riso di cuore.
A casa l’aspettava Boby, il loro cane; si capiva che era un pastore tedesco solo dall’aspetto esteriore perchè dentro il cane aveva il carattere di un pulcino indifeso.
Appena le vide entrare saltò addosso a Iris e le leccò le guance. Lei chiuse gli occhi e lo lasciò fare. Era l’unico che riusciva a metterle il buon umore.
«Ciao tesoro!» esclamò qualcuno e Iris sbuffò, buttando per terra la cartella e avviandosi verso le scale.
«Dove vai? Adesso preparo la cena!»
«Chiamami appena è pronto.» disse, passando accanto all’uomo che prima aveva salutato sua madre.
Iris non lo sopportava: con quella pancia ingombrante l’aveva sempre costretta a stare nel margine del divano, quando era piccola, per guardare la tv. E aveva quei denti orrendi.
Non capiva perchè sua madre aveva sposato uno come lui.
«Anche oggi di cattivo umore, Iris?» domandò l’uomo, non aspettandosi veramente una risposta, dato che non gliela dava mai.
«Lasciala in pace, Lucas.»
*
Si tolse i jeans e si mise una tuta. Poi accese lo stereo e sospirò tranquilla. Lì, nella sua stanza, stava bene.
«La cena è pronta tesoro.» chiamò la madre, quasi urlando per farsi sentire sopra la voce di David Bowie.
Senza dire niente mise pausa e scese. Cominciava a non sopportare più la sua vita sempre uguale.
Come ogni sera Lucas stava a capo tavola, blaterava su quanto aveva lavorato. La madre sedeva alla sua destra e annuiva ogni volta, dipendendo dalle parole del marito. Iris si sedette davanti alla madre, senza guardare nessuno dei due.
Approfittò dela distrazione dei due per dare metà della sua carne a Boby. L’altra metà la nascose nel fazzoletto che mise in tasca.
La madre le sorrise, senza rendersene conto. Iris, anche se con entrema fatica, masticò un cucchiaio di riso, per farla contenta. Sentì un connato di vomito salirle su per la gola, ma lo trattenne, lasciandosi scappare una smorfia.
Si alzò. «E adesso dove vai?» domandò, un po’ scocciato, Lucas.
«Che t’importa?» Iris lo guardò male e uscì.
«Lasciala in pace, tesoro. Imparerà a volerti bene. Diamole tempo.»
Lucas scosse la testa, non approvando. Erano passati anni da quando Iris aveva chiesto tempo epr accettarlo. Anni.
«Hai visto anche tu che si è portata dietro il tovagliolo pieno di cibo?» osservò Lucas, prendendo la mano della moglie.
*
«Iris!» gli occhi azzurri della ragazza rotearono e attraverso lo specchio guardarono la porta. Qualcuno provò ad entrare, ma l’aveva chiusa a chiave.
Sorrise soddisfatta.
«Iris! Esci subito dal bagno.» continuò a urlare la madre, preoccupata e irritata allo stesso tempo.
Iris sbuffò e si mosse lentamente verso la porta marrone. Fece scattare la chiave verso destra e la madre la aprì e la guardò con occhi spalancati, terrorizzati.
«Che c’è, mamma?» domandò Iris, facendosi spazio.
«Ero preoccupata per te.» ammise e diede una veloce occhiata al water. Alcuni pezzi della sua cena erano rimasti sulla superficie dell’acqua.
Mentre le esili gambe della ragazza salivano le scale, la madre le corse dietro. «Hai buttato ancora il cibo, eh? Ma perchè ci fai questo? Non vedi che stai morendo?» urlò fino a diventare rossa dalla rabbia.
Iris si fermò un momento, la guardò senza espressione, poi sospirò e riprese a salire. Un gradino alla volta, piano, perchè il suo corpo non reggeva troppo sforzo.
«Non so di cosa stai parlando.» mentì, come ogni giorno faceva.
La madre non disse niente, si fermò al secondo gradino, si sedette e si prese la testa fra le mani. Pianse per un po’; pianse per tutte quelle volte che la figlia non lo faceva. Pianse perchè giorno dopo giorno Iris si spegneva.
Iris entrò nella sua stanza e si sentì subito meglio. La calda luce della sua lampada la riscaldò e si tolse la felpa. Si avvicinò alla scrivania e prese il diario.
Si affacciò, poi, alla finestra. Si sedette lì e dalla sua mansarda vedeva tutto. Si stava facendo buio e le poche persone rimaste sulle strade stavano attente a tenere bene l’ombrello per non bagnarsi. Lei invece tirò fuori il piede e lasciò che la pioggia lo lavasse. Sorrse senza un motivo e poi prese a scrivere nel suo diario, mentre la luna splendeva e le faceva da amica. L’unica.
Caro diario,
Uno nasce, cresce, sbaglia, cambia, invecchia, muore. Non credi che la vita sia troppo breve per vivere davvero?
Cerchi disperatamente di vivere come si deve, ma cadi sempre nella solita monotonia. Ti alzi la mattina, ti vesti, vai a scuola, studi, torni a casa, guardi la televisione, aspetti che arrivi sera e dormi. La monotonia ti prende completamente, ti imprigiona e tu non pe puoi più uscire; è come una malattia che non ha una cura e mai l’avrà. Monotonia. È così crudele e piena di sè, non lascia che la gente si viva la sua vita.
C’è forse qualcosa di più crudele della monotonia?