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Zoo de Roma, a capitoli | drammatico-hardcore | rosso

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heidiesse
CAT_IMG Posted on 15/8/2011, 11:20




genere: drammatico, pornografico (hardcore).
rating: rosso.
avvertimenti: uso volgare del linguaggio, atti sessuali esplicitamente descritti, rappresentazione di pratiche illegali.
trama: manu, pusher di professione, trascorre la propria giovane esistenza oltre le soglie della normalità. nel cuore della malavita romana, alloggia insieme ad una crew di tossicodipendenti in una diroccata palazzina popolare del san lorenzo, coltivando illegalmente piantine di marijuana dentro casa e collezionando mannaie da macellaio senza possedere la licenza per farlo. nella sua vita irromperà inaspettatamente lisa, affascinante prostituta drogata, che scatenerà, inconsciamente, nella psiche del ragazzo, spinte e perverse fantasie erotiche mai provate in precedenza, trascinandolo insieme a sè in un limbo di sogni, aspettative e disperazione. tra overdosi, rapine, sangue, arresti e qualche piccolo intreccio sentimentale si svilupperà l'intera vicenda, dove il crudo gergo romano, utilizzato per i dialoghi tra i personaggi, donerà un tocco di personalità in più alla narrazione.

[1] "grondo sangue come i quarti di bue sui ganci."
la mattinata trascorreva tranquilla. paralizzato su di una sghemba sedia in legno, nell'ampio atrio del tribunale minorile, immaginavo di dissanguarmi. se solo mi fossi azzardato ad abbandonare quella posizione la testa mi si sarebbe certamente riempita di sangue coagulato ed avrebbe cominciato a gonfiarsi sempre più, fino al cruciale raggiungimento del limite, per poi scoppiare in mille carnosi frammentini sanguinolenti, imbrattando pareti e finestre con le mie unte e viscose cervella. "scusa, hai un secondo?" un tizio pallido e smunto mi si era fatto vicino e continuava a fissarmi con fare insistente affinchè io rispondessi al suo richiamo. preso com'ero dalle mie allucinazioni non mi ero precedentemente accorto della sua presenza, così mi affrettai a replicargli: "scusa, non vedi che sto spacciando?" lui, facendo finta di non sentire, attaccò spedito un soporifero monologo a proposito dei diritti animali e continuò inarrestabile a blaterare i suoi biechi propositi, in quella febbrile maniera, per un'abbondante decina di minuti, finchè fece il proprio ingresso nella sala una donna, che cominciò anch'essa a parlare, facendo si che il mio cervello smettesse automaticamente di registrare dati, come spesso mi accadeva in simili casi. non appena se ne fu andata interruppi il tizio dicendo:"sai una cosa? non mi hai convinto" quello si zittì all'istante mutando in un batter d'occhio il proprio atteggiamento. forse per aver riconosciuto il mio volto dalle foto appese ai muri, dedussi, invece costui mi si avvicinò ancor più alla cavità uditiva farfugliandomi di aver aver cambiato idea e di desiderare un pò d'erba. sapevo che il mio sacchetto di roba era prudentemente nascosto sotto quello destinato al cestino per l'immondizia, al gianicolense, lontano da occhi indiscreti, alchè decisi di rimandare l'incontro per quel pomeriggio, gesticolandogli veloce le mie intenzioni. avevo ancora troppo timore per alzarmi dalla sedia. lui si dimostrò sorprendentemente concorde, difatti, oltrepassando l'uscita, voltò la propria scheletrica mano in segno di saluto verso la mia direzione. io trascorsi ancora un paio d'ore nel sanguinolento limbo del panico, senza osare muovermi da lì, attendendo impaziente che l'acido esaurisse il proprio allucinogeno effetto. poi udii l'inconfondibile scoppiettare intermittente e balordo della motoretta truccata di sciotto e fui costretto a sollevarmi di peso, arrancando con le mani i braccioli. muovendo qualche incerto passo riuscii a trascinarmi all'esterno, verso il parcheggio, con estrema lentezza. una volta raggiunta la sterminata selva di auto assopite sollevai cauto le braccia intorpidite al cielo ed affondai le macchiate unghie tra i miei mossi e sporchi capelli castani, incredulo. non mi era successo niente.

[2] "te spiego n'attimo come funziona."
scesi dal sellino, a san lorenzo, sciotto mi spalleggiava complice mostrandomi impaziente miriadi di giallognoli semini, sapientemente imbustati nel cellofan, che gli facevano furtivamente capolino dalla tasca degli sformati jeans rotti. la corsa mi aveva un pò spossato così lo autorizzai a cominciare la semina anche in solitudine, se preferiva. lui mi occhieggiò stranito, dal momento che non avevo corrisposto il suo entusiasmo, mentre io mi accingevo a spalancare le braccia al vento e ad accogliere una festante susi tra di esse. "manu!" strillarono dal balcone. dopo aver ricevuto un paio di frettolose carezze lo snello segugio mi congedò con un'umida ed appiccicaticcia leccata dirigendosi, lingua a penzoloni, a grondare bava sul gonfio e calloso pollicione di mario, detto uccio. questi era tempestosamente sceso in strada in mutande, con il grosso pancione birroso di fuori e la carne tutta unta dal sudore, con il solo intento di acciuffarmi per la maglietta e trascinarmi con sè fin sull'umido pianerottolo della diroccata palazzina popolare in cui alloggiavamo. "muovi quel maledetto culo, manu!" imprecava, allentando finalmente la sua incredibilmente salda presa. la scardinata porta rotta delimitava l'ingresso dell'abituale e malconcio salotto di sempre, privo di qualsivoglia arredo o quadro. mancava anche l'intonaco, in verità. "ma che te scureggia er cervello?" sciotto ci aveva raggiunto. mario, fuori di sè, mi sbattè uno straccio di carta sgualcita e bagnata nel palmo. doveva esserselo passato tra le mani infinite volte, in attesa del nostro ritorno. lisciai, infine, il foglio e ci buttai gli occhi sù. solo un paio di righe, tracciate con una grafia stretta e frettolosa, riempivano la superficie. sciotto si sollevò in punta di piedi, sbirciando il messaggio alle mie spalle. "mo te parto de capoccia!" sbottò in uno sfrenato dialetto romano "tutto stò casino per stà minchiata? ma vaffanculo te, e chi nun te lo dice co' a mano arzata!" concluse rabbioso. mario smise immediatamente di misurare a grandi e nervosi passi la minuscola stanza, sollevando il gonfio volto sbarbato, per scrutarmi ansioso. "davvero" mi feci strada esitante "è tutto qui?" lui annuì serio, schiacciandosi il palmo della mano grassoccia sulla fronte madida. io mi strinsi nelle spalle, esprimendo agli altri la mia impotenza, dopodichè stracciai la fradicia pergamena e la gettai all'aria, oltre la finestra. d'un tratto avvertii la testa troppo pesante, così la reclinai all'indietro. mentre incastravo i gomiti spigolosi e screpolati sul davanzale, profondamente immerso nei miei incubi, udii mario recarsi verso la misera cucina ed abbandonare la propria consistente mole su di una scricchiolante seggiolina, stremato dall'eccessiva agitazione, con ancora il fiato corto e le innumerevoli goccioline, che gli colavano lente dal grasso, infangare il polveroso pavimento color mattone. nel frattempo sciotto estraeva circospetto l'erba dalle tasche e vagava frettoloso in cerca di vasi, terriccio e cucchiai da minestra lungo tutto l'appartamento.

[3] "c’avessi un milione di euro, ma con mezzo pure
mischierei la droga all’acqua che esce dalle tubature."

alle quattro e un quarto il tizio non si era ancora fatto vivo, così mi accinsi a ciondolare per un po’ con aria persa nei dintorni, approfittando dell’inaspettatamente fruttuosa situazione, per poter racimolare qualche altro fortuito cliente. solitamente non lavoravo mai in quella zona di roma, ritenuta per pregiudizi e credenze troppo fighetta, così non ero al corrente di un giro dello spaccio. strategicamente appostato all’angolo della strada, mi balenò alla mente un brutto presentimento riguardante il piccolo bastardo bramoso d’erba di quella mattina. in seguito mi confortai abbastanza rapidamente, constatando di avere un paio di vie di fuga più che sicure alla mia portata, nel caso in cui quell’incontro si fosse rivelato come la messa in atto di uno sporco agente in borghese con l’intento di fottermi, servendosi delle sue mentite spoglie. mentre il vento mi schiaffeggiava il viso e gli occhi mi si arrossavano di congiuntivite, addocchiai un paio di pischelli, poco più distanti da me, armeggiare incauti con sigarette, accendini, spinelli e quant’altro. mi feci più vicino a loro, passeggiando con malcelata indifferenza, e buttando di tanto in tanto qualche disinteressata occhiata alle circostanti vetrine, in modo da dissimulare al meglio le mie reali intenzioni. eppure, non appena sostai accanto al gruppetto in questione, quelli si affrettarono a far sparire tutto il loro armamentario in un battibaleno. dal canto mio, mi limitai ad affondare pesantemente le mani nelle profonde tasche dei jeans, rivolgendo i gomiti all’infuori, e lasciando in bella vista le trombosi delle mie vene tutte incartigliate. non notarono alcuno di tali particolari. gravitavano tutti intorno ai quindici/sedici anni. scorsi il terrore nelle loro pupille strette non appena dischiusi le labbra per parlare. erano dei paurosi ed insicuri mocciosi che avevano deciso di giocare con qualcosa di molto pericoloso, ma io stavo svolgendo solo il mio lavoro, perché non lasciarli continuare? “volete roba?” mormorai con il mio marcato accento romano e le vibranti corde vocali rovinate dall’eccessivo fumo. quelli sospirarono tutti di sollievo mentre rollavo loro un paio di canne. me ne accesi una anche io, nel frattempo, ascoltandoli blaterare di esperienze sessuali finite male e liti a casa interminabili. alla prima scarsa tirata un’irrefrenabile conato di vomito mi assalii, facendomi istantaneamente ricordare il persistente digiuno al quale ero, mio malgrado, sottoposto durante i giorni presenti e passati. mollai tempestivo i bimbi e le loro chiacchiere, precipitandomi spedito verso l’enorme scatolone dei servizi pubblici, intravedibile in lontananza. nonostante la corsa, non riuscii comunque a frenare il mio stomaco prima di aver raggiunto la meta, fui quindi costretto a fermarmi per rigettare acida schiuma incolore in un cestino dell’immondizia. in bagno, poi, ci andai lo stesso per sciacquarmi le mani imbrattate di sporco. durante quel breve tragitto una tizia completamente distrutta mi venne incontro. afferrandomi saldamente le spalle, mi pregò disperata di offrirle un buco a credito. io, colto alla sprovvista, rimasi ammutolito per un paio di secondi, non davo mai roba a credito. “seguendo i tuoi spostamenti ho capito subito cosa stavi facendo” aggiunse per tentare di convincermi. come incentivo mi offrii anche un pacchetto di sigarette. io la osservai attentamente, mentre tremava da capo a piedi in piena rota, il suo viso così esile e armonioso mi fissava con occhi enormi, privi di iride, solo la pupilla nera e profonda. il vento le spettinava la frangetta corvina ed il caschetto floscio le avvolgeva morboso il collo, mentre le sue carnose labbra screpolate si aprivano e richiudevano ripetutamente, in cerca di umido. rimanevano comunque secche, perché non aveva saliva in bocca. gliene avrei data volentieri un po’ della mia. mi limitai ad annuire con espressione ebete a quella bellissima aliena, poi la accompagnai furtivamente in bagno ed attesi un paio di minuti, affinché lei si facesse la sua pera. una volta uscita sembrava essersi tramutata in tutt’altra persona. i lineamenti del suo volto erano sempre gli stessi, ma ora sembravano aver acquisito un’aria fiera e spavalda che prima non possedevano affatto. mi ringraziò ancora un paio di volte, assicurandomi di ripagarmi quella dose il più presto possibile. io, di rimando, le risposi che avrei bazzicato più spesso nei dintorni, lasciandole anche il mio indirizzo di casa, per ogni evenienza. quando, infine, la salutai mi rivolse un affascinante sorriso, che immediatamente fraintesi. lisa, si chiamava. nell'aria aleggiava, stagnante, l'intenso odore d’amianto emanato delle periferiche palazzine romane in disuso, il tizio del tribunale minorile mi corse incontro, ansante, non appena mi scorse.

[4] "fette biscottate spalmate di merda e cazzate."
la pesante manata che g mi affondò di sorpresa, sulla magra schiena sudata, risuonò fragorosa nella piazza, mozzandomi il fiato per qualche breve secondo. poi mi voltai e gliela restituii due volte più forte. lui mi occhieggiò compiaciuto, massaggiandosi dolorante le vertebre, constatò che non mi ero rammollito durante la sua assenza. con le tasche piacevolmente rigonfie di banconote fruscianti, potei finalmente permettermi di gustare un’invitante pizza margherita, dopo interminabili giorni di dura magra, e di offrirne volentieri una anche al mio affamato accompagnatore. l’esperienza in carcere doveva averlo parecchio provato, eppure le sue strette pupille scure brillavano di gioia consunta, alla mia vista. non aveva esitato a spararsi un quartino in vena. l’intenso e speziato aroma di basilico e pomodoro fresco mi inebriava più di quello esalato dalle alteranti nubi di fumo candido, caratteristiche di quei particolari ed elaborati narghilé arabi. mentre attendevo che la morbida e filamentosa mozzarella ingerita si facesse lentamente strada lungo il mio esofago, appurai che mario non aveva più alcunché di cui corrucciarsi. “nun te dico dove m’hanno guardato queji stronzi, durante a perquisizione” proruppe g, servendosi di una scarna risata per mascherare l’umiliazione che in realtà riaffiorava quel ricordo. “nello stesso posto in cui vorresti ispezionare quella fichetta là” lo stuzzicai io di rimando, osservandolo infilarsi pensieroso una minuscola oliva al dito indice, ed occhieggiare languido il voluminoso sedere proteso dinanzi a sé, strizzato in uno scialbo paio di jeans eccessivamente attillati, che non lasciavano pressoché alcuno spazio all’immaginazione. un sorriso avido fece breccia sul solcato volto del mio interlocutore. io lo ricambiai complice, non avendo alcun motivo di lamentela. l’addetta alla cassa era appetibile tanto quanto la cameriera.

° ° °

appartati tra gli arbusti di una buia ed incolta selva erbosa, la sua appiccicaticcia bocca a cuore, infangata dalla nauseante fragranza alla pesca del lucidalabbra, prese ad assaporare sdolcinata il mio alito al rum, imbrattandomi le gengive con quel rivoltante sapore da teenager troppo cresciuta. non si trattava di una fuga d’amore. glielo lasciai intendere sollevando con un solo colpo l’insulso abito da due miseri soldi, che la faceva assomigliare ad un ridicolo insaccato da supermarket di periferia, nel quale si era strizzata, cosicché i suoi grossi e mollicci seni balzassero, penzolando inerti, di fuori ed io potei rozzamente appiccicarci le mani sopra, spremendoli quasi fossero due enormi limoni rosa. non indossava neanche le mutande, la troia. senza perdere ulteriore tempo mi accinsi a sbracarmi, abbassando fugacemente lo sguardo verso il mio pacco, già inumidito, mi liberai frettoloso dal compromettente ingombro dei calzoni per poi rialzare tempestivo il capo, imbattendomi nel suo paffuto faccione da bimba, che mi scrutava da sotto il mio naso rotto, attraverso la fitta oscurità della notte. avvertii il familiare fermento e l’uccello indurito dolermi, alchè bestemmiai tutti i santi e i diavoli del cielo e dell’inferno, conficcando rapidamente nel fango lo sporco viso dinanzi a me, prima che fosse troppo tardi. scivolai fervido tra le sue cosce flaccide, svuotando veleno all’interno di quell’utero secco, mi concedetti di affondare ancora un paio di potenti ceffoni sulla superficie grassoccia del suo fondoschiena nudo, scuotendole violentemente la carne, mi assicurai di procurarle più dolore possibile.

[5] "una scritta mecca sulla felpa in tinta col berretto,
baratta il mio rispetto con il tuo giacchetto."

lungo l’affilata superficie seghettata, della lucida lama d’acciaio, vidi impresso il mio volto deturpato da profondi cerchi concentrici, solcati in tutte le macabre gradazioni del viola, circondarmi, raccapriccianti, le orbite scolpite dai lividi durante quella domenica pomeriggio di reclusione tra le ribollenti mura domestiche, senza pasti e senza acqua, con un machete stretto in una mano ed una sigaretta spenta che sfuggiva nell’altra. lisa si era presentata senza preavviso alla mia porta, in una tanto paradossale quanto reale parodia di uno spettro nel giorno di ognissanti. tutto un fremito, dall’incredibilmente cadaverico pallore, con tanto di croste infette che le delimitavano, turpi, bocca ed occhi impastati dal crack. sospettai si fosse beccata la scabbia. nuovamente in cerca di roba, ma ridotta molto peggio del nostro primo incontro, mi riempì tempestivamente il pugno con sbiadite banconote da cinquanta, non appena l’uscio che ci separava si spalancò crepitante. io mi rigirai pensieroso, tra le abili dita asciutte, quei numerosi frammentini ruvidi, rammentando, con un pizzico di fastidio, la fulminea marchetta che le avevo scorso fare attraverso lo stretto spiraglio polveroso della plasticosa tapparella distrutta, prima di esortarla incisivo ad entrare, avvertendo gli sferzanti pneumatici sportivi, della pregiata bmw berlinese, sterzare bruscamente lungo la granulosa ghiaia in cortile. colate di tintinnanti catenine d’oro massiccio, incrostate da sporco e sudore, presero a scontrarsi fragorose tra loro, producendo lo stridente e metallico frastuono che caratterizzava l’inconfondibile presenza di pinto all’interno dell’ambiente. scortato da uno tra i suoi più rozzi e spietati magnaccia, celò gelosamente gli innumerevoli monili alla vista attraverso l’ampio scollo della sudicia camicetta di lino ingiallita, prima di abbandonarsi appesantito sulla scricchiolante imbottitura muffita dello sfondato sofà a fiori, fresco di furto, accingendosi a tagliuzzare tranquillamente bamba sporca con la sua visa rubata. adocchiai l’indecifrabile espressione contorta, che corrucciava lo snello volto di lisa, riflettersi alterata lungo la scura superficie incrinata dei costosi ray ban inforcati dal magnaccia, mentre la percepivo farsi improvvisamente minuscola accanto a me, addossando lo scarso peso del proprio scheletrico corpo contro la mia ossuta spalla intorpidita. coccolai pinto a dovere, riuscendo, così, a barattare con lui un abbondante pugno di stupefacenti per la mia insaziabile scorta, in cambio di pregiato rum d’annata e puzzolenti sigari d’importazione cubana. dopodichè, gonfiai ulteriormente il suo patetico ego ridendo ad un paio di stupide battute immorali, prima di troncare drasticamente la conversazione, congedandolo con un appuntamento per il mese successivo, come d’abitudine. solo una volta allontanati i due imponenti figuri, lisa non esitò a scattare in piedi come una molla, strappandomi bruscamente dalle mani un misero quartino di stagnola spappolata. io non potei evitare di arrampicarmi, con il mio sguardo ingordo, lungo le sue magre cosce scoperte quasi fossero due meravigliosi tronchi segnati da evidenti ematomi anneriti, le quali spuntavano procaci da sotto il minuscolo fazzoletto di lucida stoffa scura che le avvolgeva tenace gli spigolosi fianchi sporgenti, mentre lei biascicava al nulla sprezzanti ingiurie rivolte all’ombra del pappa, ormai troppo distante per udirla.

[6] "vola la tua testa calda come quella degli ostaggi di al qaida."
lisa amava vagare disinvolta per casa con indosso solamente uno striminzito slippino a perizoma, abilmente ricamato a mano, che le si incastrava prontamente tra le sode natiche bianchicce ad un passo sì ed uno no, sgraziatamente abbinato ad una logora cannotta chiazzata di sporco, che le nascondeva appena i tre quarti dello stretto addome scavato che si ritrovava. verso l’alba cominciava ad armeggiare dediziosa ai fornelli, mettendo tempestivamente a bollire, al flebile calore di una baluginante fiamma gassosa, dell’ottimo caffé corretto per l’incommensurabile gioia del vicinato guardone. mentre strisciavo le lucide palme appiccicaticce, degli scalzi piedi sudati, lungo le scheggiate asticelle sconnesse, della silenziosa cucina ancora immersa nel semibuio, alla cieca ricerca del mio insostituibile accendino a scatto, il consueto aroma caldo ed amaro della caffeina, mischiato a quello speziato e violento, caratteristico della grappa, non prese a stuzzicarmi allettante le narici, come d’abitudine. al suo posto un sentore pungente, eccessivamente salato ed acidulo, come di sardine in scatola, ammorbava la stanza. adocchiai la virile mano irsuta di g rovistare agognante tra le rigide cosce di lisa, imperlate di ardente sudore grondante, mentre l’inconfondibile protuberanza nodosa, della sua enorme nocca piegata, sporgeva presuntuosa attraverso il sottile reticolato in pizzo delle deliziose mutandine inzuppate. gli concedetti appena il tempo di penetrarla con irresistibile fervore, poi varcai repentino la soglia e mi accomodai su di una sghemba sedia scricchiolante, di quelle malamente attorniate alla spoglia tavolata incartapecorita, arraffando di getto il primo liso quotidiano sotto tiro ed immergendoci irosamente il viso dentro. quelli smisero all’istante di titillarsi. “niente caffé” appurai ad alta voce. in risposta, il labile tocco vezzoso di lisa mi venne incontro, intrecciandomi balzanamente l’umida e corta chioma arruffata tra le dita, scivolò poi lungo il mio magro collo proteso, solleticandomi il gargarozzo con delicati grattini d’intenerimento, quasi fossi uno abbietto animale da strada. il conturbante odore del suo seme le era ancora inconfondibilmente impresso sulla pelle ed io lo fiutai avidamente nell’aria, inspirando a pieni polmoni, non appena lei si allontanò in direzione del bagno. mentre infilavo una stropicciata banconota, arrotolata stretta, nella narice spaccata e tiravo rumorosamente sù la mia pista, fino all’ultimo impercettibile granello, assicurandomi appositamente di non lasciarne alcuno per g, questi tentò inaspettatamente di intavolare con me una dubbia conversazione a proposito della ragazza, alchè mi finsi troppo rincoglionito dalla botta per dargli corda. paradossalmente geloso di lei, mi abbandonai ad un lungo sospiro di sollievo non appena il discorso si spense pateticamente nel nulla. quando un tonfo sordo squarciò, improvvisamente, il tombale silenzio, riecheggiando cavernoso attraverso il sottosuolo, scorsi un fulmineo sciotto precipitarsi di getto verso l’oscuro ripostiglio celato in garage. con una delle mie migliori mannaie, prudentemente stretta tra le dita, non feci in tempo a dargli manforte che numerose grida di sprono mi giunsero ovattate attraverso lo stretto spiraglio scalfito della ridotta finestrella smontata, dirottando bruscamente la mia precedente destinazione. combriccole di stronzi in fuga con l’ibrido frutto avvizzito di maria, devotamente coltivato da sciotto, ben stretto tra le braccia spopolavano nel vicolo altrimenti deserto, alchè cacciai loro un collerico urlo d’assalto, scagliando impulsivamente la mia acuminata accetta nel mucchio. osservai la lama brillante fendere l’aria malsana del ghetto e rimbalzare metallicamente lungo lo scuro cemento sgretolato, evitando di pochi centimetri le punte sbucciate delle loro jordan coatte, prima di venire coinvolto in un’intimidatoria battaglia di insulti. “te spacco 'e gambe e poi ce sòno li tamburelli” ruggì il più mefitico di tutti. mentre lisa mi strattonava energicamente per impedirmelo, sporsi ancor più il livido volto furente oltre il sottile confine sgangherato del cornicione, riesumando un disgustoso grumo di muco giallastro tra le pareti gengivali, indirizzai il mio espettorato oltre l’architrave, imbrattando, così, il meschino grugno grottesco del mio interlocutore con compatta saliva schiumosa. non appena la sua mano grassoccia impugnò, inaspettatamente, un’impeccabilmente lustrata calibro nove, percepii il mio stomaco scrollarsi insensibilmente di dosso le ingombranti membra sanguinolente delle budella e guizzarmi tempestivamente lungo l’arida gola increspata, individuando, inorridito, lo stretto mirino inconfondibilmente puntato in direzione della mia madida fronte ed il proiettile cavo sfrecciare indisturbato luogo la rettilinea traiettoria, sfiorandomi lancinante lo smunto cipiglio impietrito. mi ritrovai malamente scaraventato al gelido suolo, con gli occhi atrocemente sbarrati e le orecchie ancora fastidiosamente fischianti, per l’agghiacciante urlo di lisa, distinsi confusamente le scheletriche braccia da ragno di quest’ultima ancora morbosamente avviluppate attorno ad uno dei miei ed i suoi scuri occhi folli, i quali mi spinsero a tastarmi paurosamente il capo, saettare verso un punto imprecisato oltre la mia testa, in prossimità del peggio. contemplai, esterrefatto, la minuscola pallottola fumante ardere ancora per il brusco impatto, assurdamente conficcata nella rigida superficie deforme del cappelletto a visiera che avevo indosso, ad un misero palmo dal mio naso. “vammorìammazzato” biascicai esangue.

[7] "gesù cristo dorme sopra una panchina in zona mia."
il boia incappucciato con la scure mieteva l’aria pesante a falciate, durante il mio deja-vu di pillole buttate giù in mezzo bicchiere di rum. raccolsi rapidamente i numerosi germogli sfuggiti dalle dita e li spedii prepotentemente sotto terra, con un ben assestato colpo di paletta. l’ennesimo trip dell’orrore. lisa si muoveva strisciando circospetta a terra, in una ridicola imitazione di un lombrico, cingendomi ossessivamente le braccia attorno alla vita ed appellandomi con uno strascicato “secco” ogni due per tre, troppo fatta per essere vera. sciolsi accortamente il suo bellicoso abbraccio, facendola sgusciare via da me a mò di anguilla. “eh, manu” le dita aguzze, che mi tamburellavano puntigliosamente la schiena ad intermittenza, esigevano sfacciatamente roba a credito una volta di più, alchè, acchiappai prontamente sciotto per le gracili spalle sbucciate, reclamando delucidazioni. venni a sapere delle pompe che lisa tirava loro in cambio di droga, così, sopraffatto dalla sconcertante visione di quella lucida bocca morbida, che alleviava pulsioni da miriadi di punte turgide, “manco se te spari” sancii. una stizzita occhiata mi giunse in risposta, con la consapevolezza che strafogarsi di stupefacenti non reggeva il confronto con i bocchini di una qualsiasi puttana. la certezza del loro appoggio pervenì quella sera, quando, svaccato sul lercio divano spruzzato di vomito, intento a ciucciare liquore stantio da cosce di bottiglie sbeccate, con le facce inamidate dei politici in diretta tv sullo schermo a tenermi compagnia, lisa mi raggiunse lemme lemme, scavandosi un microscopico giaciglio sul bracciolo che stringevo. con l’aria sbandata di chi non capisce quel che le stà accadendo attorno, tentò inutilmente di elemosinarmi una dose, incassando un secco “no” come replica, prendendo, pertanto, a rigirarsi ininterrottamente la mia mano tra le dita nervose, in cerca di soluzioni alternative. le giunsi in aiuto, rimpolpando la mia risposta: “fammi un pompino come pagamento”. la sua faccia interdetta divenne l’inequivocabile riflesso degli squallidi sotterfugi smascherati, ritortosi inaspettatamente contro la propria mente ideatrice. mentre accanite ingiurie femminili le ronzavano assiduamente nel cervello, dichiarandomi ufficialmente guerra al grido di “stronzo, stronzo”, le sue longilinee mani flettevano attorno alla mia cinta sciupata, sganciandomela, e le sue unghie pungenti si insinuavano fuggevolmente oltre l’elastico delle mutande, calandomele al suolo. tra grotteschi giochi di luci ed ombre, spiccava inerte la protuberanza irsuta del mio uccello molle, attorniato da smilze dita abili, piacevolmente attorcigliate attorno ai testicoli, che mi scivolavano ripetutamente tra le grinze, striandomi la carne ad ogni lieve carezza. incastrai morbosamente gli occhi tra i minuscoli dossi compatti, che le solcavano il petto, osservandoli straripare oltre l’elastico della maglietta, per via dell’eccessivo sforzo in atto, mentre roventi nubi di fumo inconsistenti si abbattevano violente contro la conca del mio inguine nudo, incendiandomelo di passione. dure come la pietra, le mie forme ritte, strizzate tra le sue labbra gommose, lubrificate dalla saliva, sondavano gengive, sfregiandosi contro le punte aguzze dei denti, presero a giocare all’avvitamento con la sua lingua elastica, tra singulti risucchi, colpi di tosse e gutturali sbuffi. la verga stuzzicata zampillò sborra a fiotti, schizzandole in gola con furore, quasi si trattasse di denso sciroppo per la tosse, lei ingollò la razione in un sol sorso, staccando la bocca dal mio uccello fradicio con un leggero “plop”. ancora un misero pizzicotto sulla mia guancia sporca, poi agguantò fulminea la sua cartina come se nulla fosse stato.

[8] "è rosso sangue sullo sfondo del mio mondo più stronzo."
accecante, il sole del mezzogiorno spaccava le iridi ed il passamontagna, in pruriginosa lana avvizzita, pizzicava la faccia a tamburo battente. due dita e mezza, rivestite dalla cenere, assennatamente riflesse sulla lente in vetro dello specchietto retrovisore, mi davano funestamente via libera all’assalto. con furore, il gomito lo fracassai contro la cristallina superficie, incastonata tra le assi, riducendola rovinosamente ad una cascata di scintille taglienti. scalpicci irrequieti alle mie spalle, che mi spinsero a violare spudoratamente la soglia, rendendomi ancor più temerario. accarezzai la barba ispida, dell’unico stronzo di guardia, con la mia lama pungente, minacciando morte. “semo a cavallo” dicevano gli occhi raggianti di sciotto. assieme a g, lungo la ripida rampa per il seminterrato, a scassinare botteghini in un buco di fogna che odorava di letame, gli intrusi esondarono fuori dalle tane come orde di topi impazziti, in un carosello di bailamme e follia. “rambo, butta ‘a fascetta” cantilenava l’eco martellante nella mia testa, mentre il cervello fatto mi veniva bruscamente frantumato contro uno spigolo aguzzo, facendomi schizzare il naso fuori dall’asse, in un inarrestabile bagno di sangue. l’ultimo, precario, briciolo di lucidità lo utilizzai per sfuggire all’incombente massacro. mostri e demoni, profondamente assopiti sotto strati e strati di stupefacenti, che si ridestavano repentinamente nella mia memoria, durante l’estenuante galoppata per la salvaguardia della vita. raggiunsi l’agognata meta, con occhi pisti e visuale periferica a puttane, più morto che vivo. ignorai un paio di squittii allarmati di lisa, sbarazzandomi frettolosamente dal soffocante ingombro del cappuccio, prima di finire mestamente collassato al suolo per asfissia, alchè, la scorsi portarsi istintivamente le tremolanti braccia dinanzi alla morbida bocca spalancata, più sbigottita che mai, non appena il volto mi fece precipitosamente capolino, da sotto il ripugnante panno sozzo. fulmineo, posizionai quest’ultimo di fronte al rigido specchio contuso, ripulendo l’angosciante fiume di sangue in piena, che sgorgava imperioso dall’appendice nasale visibilmente storta, accorgendomi solo allora di averlo arginato in bocca per un bel po’. con pollice ed indice, fermamente incastrati tra le fossette di cartilagine maciullata, assestai un energico strattone schioccante, raddrizzandolo alla bell’e meglio. “sto a tòcchi” strisciava mestamente g, dallo sciancato cornicione della finestra, al putrido sofà sbrindellato dal cane. l’artico ferro scarico di sciotto rimbalzò, abbacchiato, sulla salda tavolata sgombra, mentre il suo smilzo braccino scarnato mi trascinava, inspiegabilmente luttuoso, nel viottolo, ove, la spezzata carcassa sanguinolenta di mario, mi fissava, inanime, con un foro da proiettile selvaggiamente inciso sulla fronte, a solcargli, ripugnante, le grasse cervella morte. i ginocchi sbucciati dall’asfalto, piegati sotto il disarmante peso dello strazio. crollai inaspettatamente al suolo, tuffando gli umidi palmi impolverati nella lucida pozza purpurea, profondamente turbato. la magra cena rimasta, posta sopra al marciapiede di quartiere, rigettata da lisa, mentre le spigolose ossa di sciotto mi comprimevano convulsamente la spalla, rinfrancanti. “a uno a uno se n’annamo tutti” .

° ° °

la lugubre frase, che mi frullava turbinosamente nella testa, mentre inchiodavo rudemente la camionetta, lungo il melmoso sterrato, con le dita smodatamente incollate al volante. una minuscola cesoia arrugginita, per liberarmi, agevolmente, dal fetente ostacolo del reticolato di sicurezza. con la legnosa asta, del consumato cinquantotto, saldamente stretta in pugno, scavai un’approssimativa fossa tra i rifiuti. le liquefatte articolazioni del cadavere, tutte ingarbugliate a frattaglie, che non faticavano a farsi scorgere, attraverso il sottile velo scuro, dell’untuoso sacco in plastica, nel quale erano state assennatamente compresse. senza scrupolo, gettai il macabro carico nella tomba. voci e bisbigli indecifrabili, che accompagnavano il desolante rito funebre, clandestinamente svoltosi all’interno della discarica. “sono morto” recitava l’opprimente epitaffio, rozzamente tracciato sulla sabbia.



Edited by heidiesse - 28/8/2011, 15:13
 
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heidiesse
CAT_IMG Posted on 28/8/2011, 14:18




aggiornato il primo post (:
 
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1 replies since 15/8/2011, 11:20   34 views
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